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HARLEM STATE OF MIND: GRAFFITI HALL OF FAME + INTERVISTA CON GIULIA "SHINE" FELEPPA

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​​AELLE.EMAIL​​​ #15 – 12/09/24

HARLEM STATE OF MIND

Di Luca Mich

Il racconto di 24 ore per le strade di Harlem tra le leggende del writing in occasione della storica Jam alla Graffiti Hall of Fame.

È una di quelle giornate perfette per passeggiare tra le strade di Harlem fatte di brickstones buildings, quelli normalmente associati più alla zona di Bed-Stuy a Brooklyn, complice Spike Lee e le sue istantanee sugli spaccati di vita della Black America. È sabato e come accade di solito da queste parti, uscendo dalla "bodega" all'incrocio tra la 147esima e la Broadway dopo aver fatto colazione con dei coloratissimi Apple Jacks che richiedono dosi giornaliere costanti senza essere necessariamente classificati come drugs ma come semplici cereali Kellogs, incrocio piccole bancarelle, trift shop improvvisati, soundsystem a cielo aperto, ragazzi che giocano con gli idranti nei bloc party che consistono nella chiusura di una Street, una via laterale, per la distanza di un blocco circa, a volte anche di più di uno, e in fiumi improvvisi di persone che per il weekend si riprendono il loro asfalto, muovendosi indiavolate sui beat di Eric Sermon, Pete Rock e compagnia.

Eccola lì quella sensazione di pace e di connessione immediata con la community, seguendo le vibrazioni della musica e della black culture, quella che ricercavi dal tuo ultimo viaggio e che in qualche modo è arrivata fino a te tra le montagne del Trentino, attraverso i suoni nu-soul, i beat Hip Hop, le foto di Martha Cooper e Joe Conzo, i film alla Wild Style e Mo better Blues, il funk della FatbackBand e le storie da qui di Aelle e American Superbasket.

Il sole ti scalda la pelle e i granitoni di Amanda ti ghiacciano lo stomaco all'improvviso mentre scartabelli con cura i dischi di Vincent col suo immancabile almanacco cartaceo senza più copertina: per lui amante della fisicità, delle belle donne orgogliose dei loro fianchi e delle chiacchiere da quartiere, rappresenta una sorta di discogs aggiornato costantemente a penna.... Quando scorre quelle mani giganti su quelle pagine in cerca della quotazione di un disco di Eddy Floyd è come se stesse cercando la pelle della sua soul lady, tra le lenzuola, la domenica mattina. Jill Scott fa capolino mentre scorrono le immagini.

Proseguo verso sud per la Broadway, ci sono i soliti gruppi di latinos che sgranocchiano tacos a qualsiasi ora, qualche ragazzo ciondolante con chili d'erba in tasca e nei polmoni già di prima mattina, l'oppio al popolo ha anche questo effetto su chi non ha ancora inquadrato cosa essere nella vita o non può semplicemente permetterselo. Ci penso a quella distanza di vissuto ed esperienze che può esserci tra un italiano che è qui per scelta di seguire il flusso delle sue passioni e vivere esperienze autentiche nella community, e chi invece qui ci vive e fuori da Harlem, da New York City, non c'è nemmeno mai stato. Eppure su quell'asfalto lì, pieno di riferimenti culturali per chi sa cogliere, di passi fatti verso se stessi e aprendosi agli altri, siamo tutti bros. Se sei lì un motivo c'è e quando lo racconti a chi ti ferma, tutti lo comprendono.

Sulla 138esima a Montefiore Square il benvenuto me lo dà una nuova installazione, la statua di DJ Red Alert, leggenda degli early days della cultura Hip Hop, o meglio de "do it in the park", di quella cosa che all'epoca muoveva i primi passi e non aveva ancora un nome, era solo esprimersi sull'asfalto con ogni ballo, arte, musica o rap, molto prima che venissero definite le 4 discipline dell'Hip Hop ed il codice fosse tramandato anche al di qua dell'Oceano. Una roba di quartiere, un modo naturale di esprimersi durante quei block party, tirando fuori quel senso del ritmo e quella presa bene che nasce in Africa, in Giamaica e arriva fino ad Harlem nel periodo della Renaissance e poi prosegue nel Bronx e oggi nelle cuffie, nelle pose, nel modo di essere di tutte noi Hip Hop headz sparse per il globo. Una nazione sotto lo stesso groove. One blood, one world.

Che poi Red Alert lo vedi lì cristallizzato chino sui suoi piatti in questa statua color oro e con la sua musica che esce dagli speaker ogni tanto durante il giorno,... ma lui è vivo e vegeto e te lo ricordi benissimo infiammare la 125esima appena un anno prima, su quel palco voluto da KRS One, montato proprio di fronte all'Apollo Theather, il simbolo di Harlem, durante una delle jam di celebrazione dei 50 anni della cultura Hip Hop. C'ero a festeggiare assieme a tutta la community in quella che forse tra qualche anno verrà ricordata come "the second coming" la seconda grande ondata dell'Hip Hop culture a New York, lì dove è nata e che grazie alle celebrazioni di Hip Hop 50, è tornata nelle strade nelle sue forme originali e culturali. Chissà, forse Netflix ne farà un documentario tra 20 anni e qualcuna di quelle camere in cui avevo sorriso, potrebbe pure ricordarmi lì, dove "it has meant to be", dove dovevo essere.

Intanto i passi scorrono lenti, mi gusto ogni immagine e completo il mio puzzle interno mentre incrocio proprio la 125esima: oggi ho un appuntamento qui, davanti all'Apollo. "Ciao Luca, pensavo di prendere un coffee to go sulla e camminare fino alla 106th, c'è la Graffiti Hall of Fame, oggi rinominano la strada e ci dovrebbe essere una gran bella jam." Lei è Giulia Feleppa aka @shine_giulia, fotografa e graphic designer che qualche anno fa ha mollato tutto a Bari per inseguire il sogno di vivere la cultura Hip Hop qui dove è nata e fa foto ad ogni graffito che trova in giro, documenta, cataloga, interagisce con ogni writer che trova e crea pure connessioni. Ci siamo scambiati i contatti su instagram qualche giorno fa tramite Aelle e guarda caso era proprio lei la ragazza di cui avevo letto qualche mese prima su Fanpage, la pugliese che ha avuto il coraggio che a me ancora è mancato, di vivere qui tra queste strade e gustarsi ogni giorno quello che io provo per pochi giorni in bagni culturali. Siamo dello stesso clan acustico, come lo definirebbe Raffaele Costantino.

"La comunità dei graffiti artists qui a NYC è molto inclusiva - Mi dice Giulia - arrivando qui mi è bastato parlare della mia passione per la cultura Hip Hop, pur venendo da un continente oltreoceano e spesso è stato proprio questo elemento, la mia provenienza,... che ha creato sorpresa negli altri e che mi ha aperto le porte della community di writers." Capisco perfettamente ciò che intende, cultura, entusiasmo, passione e sorrisi, sono le chiavi di accesso qui a New York, e credo un po' dappertutto in realtà. Niente è inaccessibile, serve solo tempo.

Quel coffee non lo troviamo proprio subito...c'è troppo da raccontarci e senza accorgercene finiamo su Park Avenue che all'altezza della 125th va sotto il nome di El Barrio, luogo di latini, portoricani, domenicani, afrodiscendenti e mescolanze umane che rapiscono le nostre immaginazioni. A quell'altezza Park Avenue ha l'aria trasandata della periferia americana, ci sono un sacco di homeless, qualche casa d'accoglienza (l'YMCA nei 70 non era poi molto distante da qui), piccoli esercizi commerciali, lavanderie pubbliche, grocery stores e decine di persone in strada al cazzeggio. È un luogo che per molti europei potrebbe pure sembrare ostile e di certo non va sottovalutato, ma l'odore del caffè ci spinge ad inoltrarci in quella giungla urbana e ne usciamo premiati e arricchiti da una conversazione che ricorderemo.

L'incrocio con la 106th è ormai vicino quando Giulia se ne esce con un "Ah alla Jam dovrebbe pure esserci Martha Cooper". Come scusa? Martha? "Sì lei di solito c'è sempre a questi eventi". Bene. Sto per svenire. Non sto letteralmente nella pelle. Farò le foto delle pezzate della Graffiti Hall of Fame, luogo di Harlem che per primo ha visto nascere i graffiti sulle mura di quel backyard della scuola, assieme alla prima fotografa in grado di documentare la nascita di questa nuova forma artistica su treni e murate, nei primi anni '80. Subway Art e Hip Hop Files a suo nome, sono bibbie fotografiche che per prime ci hanno raccontato cosa accadeva tra Bronx ed Harlem e l'occhio che ha intuito, annusato, conosciuto, visto e fotografato tutto fin dalla prima ora, è lì. Potrò dirle grazie. Potrò spiegarle che a 15 anni uscivo in motorino con gli amici a fare i pezzi nei sottopassaggi con gli amici, a 1000 metri sul livello del mare in mezzo alle Dolomiti, ripetendo le pose che avevo visto in quelle immagini. Ed è proprio ciò che accade... 10 minuti dopo.

Martha è lì, ricoperta di zaini, cavalletti e obiettivi, a parlare con tutti, ad ascoltare storie e a fotografare ogni centimetro di muro. È la 44esima jam della storia che si tiene in questo giardino, forse ne ha persa qualcuna ma di base lei qui può dirsi a casa, dall'inizio.

"Hey Luca hai visto c'è anche Skeme! Lui è uno dei pionieri, nei libri di Martha ci sono anche i suoi pezzi. Oh e quello lì invece è Charlie Ahearn, il regista di Wild Style". "What the fuck!? Cioè Giulia va bene tutto ma mi vuoi dire che siamo ad una jam con chi ha creato il nostro immaginario? Il primo regista, la prima fotografa e addirittura uno dei primi writer a inventarsi i colori e le forme sui vagoni per uscire dal Bronx?" È tutto surreale. Mi metto a filmare e fotografare più cose possibili. Attorno a noi decine di writer della scena old e new school stanno bombardando muri e pannelli, rifanno il look a questo posto, vendono le proprie opere e si confrontano con chiunque.

A Skeme racconto da dove vengo, lui mi dice che nei primi anni 90 era in Italia a Vicenza e si ricorda di un certo Ciso e di un locale chiamato Palledium "o Pallàdium like you say" mettendo l'accento sulla A alla romagnola. È incredibile una street legend sta ricordando una vera leggenda nostrana. Gli chiedo se posso documentarlo e mi ripete tutto in video. Ancora non ci credo.

L'atmosfera attorno intanto si scalda, ci sono i breaker che fanno numeri da capogiro, arrivano le vecchie crew a supportarli e consigliarli… c'è Crazy Legs della Rocksteady Crew, ci sono i Furious Rockers, tra i primissimi a spezzarsi la schiena giù a Brooklyn. "We ain't like bombers, we had disco, we had funk, the fatback band, the groove, we started our own thing and we didn't call it Hip Hop, it was like do it in the street" mi dice Ringo Miranda. Ci tiene a far capire che ogni quartiere ha avuto le proprie peculiarità e il proprio sviluppo della cultura Hip Hop, del breaking, delle arti... che non solo i Bombers (come chiamano gli Yankees del Bronx) hanno plasmato la loro cultura. Si stupisce per l'interesse e intanto Bom Master Fabel, anche lui street legend vera ascolta quello che ho da dire per chiudere con un "Culture has no colours man, you Hip Hop". È questione di radici e quelle che hanno piantato qui sono talmente profonde da arrivare fino all'altra parte del globo in un paesino di montagna 25 anni fa: a cantare "You got me dei The Roots" in cameretta mentre gli altri si chiedono che musica è, che ci sia di speciale, perché sia "parlata", ad unire un gruppo di persone simili che risuonavano su quelle note e decidevano di creare la loro realtà, i loro riti, i loro stili, con quelle note in sottofondo. Esattamente come accadeva qui, anche se per altre necessità e in altri contesti. "We Family Man". Pugno al cuore.

Poco dopo siamo tutti assieme radunati attorno ad un semaforo: è il momento, quell'incrocio viene ribattezzato per sempre "Graffiti Hall of Fame Boulevard". E chi se lo sarebbe mai immaginato quasi 20 anni fa quando passai di qua per la prima volta a fotografare qualche vecchio graffito e la doppia H sembrava ormai poco più che un genere musicale da vendere più che una cultura da celebrare...

Sul palco intanto salgono Large Professor e dj locali ma anche Statik Selektah e Dstroy degli Arsonist, si sfidano a colpi di cut e piazzano i break perfetti per i "rockers" che è come li chiamavano giù a Brooklyn. Arrivano addirittura i Grand Master: ci sono Caz e Theodore, i primissimi a far girare dei dischi sui Technics 1200, ma anche amici come Alex e Dj Zeta che in quanto a status di leggenda è paragonabile, amici che sono qui a New York come me, chi per viverla chi per diggarla da cima a fondo, e ci ritroviamo a parlare con leggende della scena come fossimo vecchi amici. C'è chi ricorda di aver fatto un viaggio a Napoli nell'84 per uno spettacolo su Rai 1. Si trova pure su youtube e dovrebbe esserci stato anche Maurizio, Nextone, il nostro orgoglio nazionale in fatto di Breaking e Hip Hop culture.... "It's amazing that you were in Italy dancing only 10 years after Hip Hop was born…but I can't remember the name of the Rai 1 program because I was only one year old". "What?!? One year? So you grew up and Hip Hop was something already, guys lets take a picture with this guy saying ONE"! Sono più increduli di me, ci mettiamo tutti in posa e gridiamo one. Ho la pelle d'oca alta un metro.

Intanto Giulia mi presenta Shiro, Jaek El Diablo che ha le lacrime agli occhi mentre dipinge perché domani ritorna in Francia, Cope2, Kanolove, Snake1 e una serie di altri writers OG che non riuscirei a mettere tutti in fila. È tutto magico, c'è l'atmosfera delle primissime jam anni '90, quelle che organizzavamo anche noi dalle nostre parti con quello spirito comunitario e interattivo.

Il tempo è sospeso, potrebbero essere gli anni 90, il 2000, i seventies o semplicemente il qui ed ora. Tanto che con Zeta quasi ci scordiamo che sarebbe ora di andare, sono le 9, siamo lì da tutto il pomeriggio e giù al Terminal 5 a Hell's Kitchen stanno per suonare i The Lox. Ci fiondiamo lì cambiando tre metro, siamo perfettamente in tempo e ci becchiamo pure un cameo di LL Cool J e Ghostface Killah, è evidentemente il nostro giorno e gli dei dell'Hip Hop lassù sono apertamente schierati: la doppia H ci ha travolto oggi come trent'anni fa, per Zeta qualcuno in più.

Il posto manco a dirlo esplode, non c'è letteralmente spazio vitale, siamo tra i pochi culi bianchi presenti ma abbiamo anche la sensazione di essere tra i più consapevoli di quanto vale questa reunion del gruppo della Ruff Riders. Il concerto è una mina, ma è quando Jadakiss e soci posano il microfono e tutti lasciano immediatamente il locale, senza intrattenersi in cypher o semplice cazzeggio, che finalmente realizzo ciò che abbiamo vissuto in meno di 24 ore: dal parchetto e dalle 4 discipline, al concerto patinato, dalla community al mainstream, dalle mani alzate ai cellulari a fare da schermo con la realtà, dalla presa bene spontanea in strada all'essere spettatori immobili della propria cultura, dal qui ed ora alle live su insta, dai baggie pants aereografati di Master Fable e la tshirt che sapeva di acrilico di Skeme,... ai New Era personalizzati con le patch presi a Lids, dalle toppe consumate delle crew agli street fashion brand sui ventenni a caccia di coolness, dalle origini all'oggi, dal parchetto al club alle hall, dalle strade alla Hall of Fame, dal Bronx e Harlem a Manhattan.

Realizzo che in quelle 50 strade mal contate che separano le due H, Harlem ed Hell's Kitchen, ci sono gli anni percorsi dalla doppia H, e che sono proprio 50 malcontati. Che Park Avenue con Giulia è un flusso di nostalgico di ricordi di momenti mai vissuti, ma immaginati forte. E che dopotutto, quei vagoni lì, quelli della metro 6 che cuce Bronx, Harlem, e Manhattan assieme, beh, forse soltanto per una sera, forse soltanto per due italiani cresciuti con quelle immagini in testa, forse solo per quello spazio preciso e quel tempo breve che si dilata nei ricordi, sì forse soltanto per noi, quei vagoni sono stati la nostra Delorean. Il nostro ritorno, al futuro.

Harlem state of mind….

GIULIA "SHINE" FELEPPA

D'ora torniamo nel presente e conosciamo meglio Giulia "Shine" Feleppa, attraverso la sua esperienza di fotografa di graffiti a New York City, senza la quale questa esperienza e questo racconto non sarebbero impressi su queste pagine.

Giulia, ti va di raccontare ai lettori di Aelle un po' del tuo background?

Sono una fotografa con sangue pugliese. Nata e cresciuta a Bari, da mamma tarantina e papà foggiano. Meglio conosciuta come Shine, nome che ho scelto grazie ad una cara amica delle scuole superiori e che ho disegnato spesso a caratteri cubitali sui banchi di scuola. Il mondo dei graffiti mi ha affascinato sin da allora, quella voglia di voler affermare il proprio stile, il proprio territorio e di essere riconosciuti solo da chi faceva parte di quel mondo. Una cerchia ristretta lì allora in quel di Bari, che ho visto crescere giorno dopo giorno tra una battle di rime fuori a Storie del Vecchio Sud, un break dance cypher al Parco 2 Giugno, e mille serate e concerti al Demodè. Ricordo ancora la mia prima bomboletta spray viola con i brillantini, comprata di nascosto con la mia amica e usata forse due volte prima di distruggere il cap in maniera irresolubile. La mia passione per questa cultura si è poi riversata in una di quelle arti, meno rischiose rispetto alla precedente, che mi portava a brillare in mezzo a tanti. La danza era la mia valvola di sfogo e la mia massima forma di espressione insieme ai miei outfit e alle mie rime.

Poi ad un certo punto hai deciso di venire a vivere a New York, cosa ti ha spinto?

Non è stata una decisione pensata dal giorno alla notte, ma è stata ponderata e bramata da tempo. Da quando a 16 anni ho iniziato ad ascoltare rap ho sempre tenuto un orecchio aperto su possibilità di andare negli Stati Uniti anche solo per una settimana. Ma non conoscendo nessuno dall'altra parte dell'oceano, non potevo permettermi un viaggio a mie spese da sola. Ho tentato anche diverse borse di studio per l'America mentre ero in Germania, ma senza successo.... Quando ho scoperto il programma Au Pair In America, ho sperato con tutta me stessa di essere selezionata.

C'eri già stata prima oppure sei partita seguendo un'intuizione? Spinta da una sensazione più che da un'idea sensata (direbbe qualcuno)?

Non ero mai stata negli Stati Uniti ma conoscevo New York dai video musicali di Jay Z, Alicia Keys e altri. Tutta colpa di MTV e della marea di film girati a New York. Non è stata un'intuizione o sensazione, è stato un prendere o lasciare. Ho visto quel treno che aspettavo da una vita ed ho deciso di saltarci a piedi uniti e occhi chiusi. Ovviamente quando lasciavo la Germania, non credevo che sarei rimasta a NY così a lungo.

Quali sono state le prime differenze che hai notato rispetto all'Italia e quando veramente hai iniziato a chiamare NYC casa?

Dal momento che ho messo piede a Boston, in quei 6 feet e più di neve, e poi una volta a New York mi son dovuta abituare ad un clima diverso, a ritmi di vita estenuanti, a distanze e proporzioni giganti, e un modo di relazionarsi diverso dal nostro. Quel "how are you?" che in realtà non protende un orecchio in ascolto ai tuoi problemi. Ho iniziato a chiamare New York home quando dopo alcuni anni avevo costruito una cerchia di amicizie sulla quale potevo contare. Quei punti fissi alla quale, se la nave dovesse affondare, ti potresti sempre aggrappare. Mi ritengo estremamente fortunata per questo. In una città dove ognuno ha orari, problemi e lavori diversi, avere qualcuno sulla quale contare, oltre a sé stessi, fa tanto.

Tu fotografi graffiti in tutta la città, quali sono i tuoi hotspot? E ci sono luoghi in cui ritorni periodicamente per aggiornare il tuo book?

Suonerà banale ma è Bushwick il mio hotspot. È un quartiere che pullula di graffiti, commissionati e non, che riserva sorprese. Adoro i muri del Bushwick collective, ma adoro ancora di più perdermi negli angoli più nascosti o nelle stradine più isolate di un quartiere che ha ancora una parte industriale.... È emozionante ritornare in quelle stradine e scoprire che quel pezzo non è stato coperto o trovare nuovi pezzi ancora più interessanti di quelli precedenti.

Stai portando avanti un progetto preciso di pubblicazione in questo momento?

Ho tante idee e progetti che fluttuano in testa, ma sono nella fase di ricerca e di studio. Ho ancora tanto da imparare riguardo a graffiti ed artisti ma per quanto sia propensa a condividere cosa imparo giorno dopo giorno, mi limito ad annotare e fotografare tutto, per ora.

Hai mai pensato che per molti italiani soprattutto della Gen Z, potresti in qualche modo essere la loro Martha Cooper… sei lì e noi qui, anche se oggi vediamo tutto attraverso i social, ma conoscere chi scatta le foto è tutta un'altra cosa… Che effetto ti fa?

Mi emoziona solo il fatto di poter vedere il mio nome accanto al suo, ma non potrei mai prendere il suo posto o fare le sue veci. L'ammirazione verso il suo lavoro di documentazione in quegli anni e in quelle locations dove era rischioso anche solo andare in giro, in più portando con sé costose lenti e macchine fotografiche pone Martha Cooper ad un livello così alto che è impossibile raggiungerla.

Ho notato che conosci moltissimi writer per nome e pure di persona, come è stato entrare nella community locale e conoscere quelli che oggi in molti casi puoi chiamare amici?

La comunità dei graffiti qui a NY è molto inclusiva. Mi è bastato mostrare a parole la passione per la cultura Hip Hop, pur venendo da un continente oltreoceano. Anzi, spesso è proprio questo elemento di sorpresa che mi apre le porte della community. Una community che include artisti provenienti da tanti paesi, etnie e religioni diverse. Ma come dicevo prima, mi ritengo molto fortunata. Una mia cara amica italiana mi ha introdotto alla community dei graffiti e dell'arte locale l'anno scorso. Conosco Miki Mu da un annetto infatti. Lei è un'artista straordinaria ma soprattutto una persona con un'aura di positività gigante. Ogni volta che sono con lei, ho la fortuna di conoscere artisti altrettanto talentuosi come El Diablo, Shiro, Scratch, BC..... Quello che percepisco ad ogni evento alla quale assisto è che ognuno ha un estremo rispetto per il lavoro dell'altro, e non si perde mai occasione per collaborare o aiutarsi a vicenda. Purtroppo, non ho avuto modo di interagire molto con i pionieri. Loro cercano di mantenere un profilo basso, ma sono sempre pronti a raccontarti aneddoti e ricordi di murate fatte in Italia. Per esempio, recentemente ho avuto l'occasione di presentarmi a Delta2 e quando ha sentito che ero italiana, mi ha parlato della murata a Quattordio fatta con Phase 2 nel 1984.

A New York puoi incontrare qualsiasi tipo di street art, c'è uno stile in particolare con il quale ti identifichi maggiormente?

Sì, ci sono degli stili che amo osservare e studiare. Il wildstyle è il primo, più intricate e complesse sono le lettere e più attirano la mia attenzione. Nessuno mi toglie la soddisfazione dopo aver decifrato un graffito e scoperto un nuovo artista. Il secondo è il calligraphy style nei graffiti, non ce ne sono molti a New York, ma i miei preferiti sono i lavori di Faust e Never. Sono una grande appassionata di lettering and handwriting, infatti appena posso mi cimento con pennarello a punta piatta e carta ma vederlo su un muro fa tutto un altro effetto.

Il writing ormai da anni è entrato anche nelle Gallery più prestigiose e nei musei di New York, che riflesso ha questo sulla community di writers? Ne avete mai parlato?

C'è sicuramente tanto entusiasmo e supporto nella community di writers quando uno di loro apre una mostra nei più grandi musei di New York. Ogni opening diventa motivo di ritrovo e scambio di ricordi o di informazioni per nuovi progetti. Alle volte diventa punto di inizio di nuove collaborazioni. Sicuramente la community è presente e risponde positivamente a questo evolversi dei graffiti in nuovi media e nelle forme più astratte. Si vede la fierezza negli occhi dei pionieri che finalmente vedono i loro graffiti riconosciuti come arte a livello nazionale e internazionale. Chi non si vede è chi supporta le tag illegali come massima espressione del graffitismo o chi preferisce nascondere il volto nelle foto.... Non tutti aspirano alle luci delle gallerie d'arte, ma chi le supporta sembra in maggioranza.

Lo scorso anno ero in città per Hip Hop 50 e mi aveva colpito molto il cross che era stato fatto su alcuni pezzi di Jorit che raffiguravano Lauryn Hill, KRS-One, Muhammad Ali, tutti in zona Lower East Side. Mi sono chiesto se esistessero ancora le faide tra crew come nei '90, hai mai percepito questa problematica o si respira un'aria di maggior collaborazione in generale?

Non sono sicura se le faide tra crew esistano ancora. La mia percezione e conoscenza in campo è abbastanza positiva ma limitata. La parola chiave è rispetto, rispetto per i pionieri ma anche per chi inizia adesso. L'importante è non coprire il pezzo o la tag di qualcun altro. Ancora più importante è non copiare o falsificare, ma questa penso sia una questione degli anni passati, di cui però ancora si risentono degli schiamazzi. Alle volte vecchie frustrazioni di vecchie faide ritornano a galla, ma sono irrisorie e irrisolte.

Come ti vedi fra 5 anni? Quali progetti ti piacerebbe realizzare?

Vorrei tanto poter continuare a documentare questa meravigliosa cultura e farla arrivare non solo in Italia ma in tutto il mondo. Lo so che i social media fanno già tutto ciò, ma avere una versione cartacea, per quanto old style è fondamentale. Vorrei pubblicare una raccolta di graffiti, direttamente dalla grande mela ma anche raccontarvi (non solo visivamente) quelle che sono le più belle mostre alla quale partecipo ogni giorno qui a NY. Tra cinque anni mi vedo con una macchina fotografica in mano che sorrido con gli occhi colmi di gioia davanti ad una super colorata murata, magari con un paio di libri da me pubblicati nello zainetto e due biglietti, uno di andata per chi sa dove e uno di ritorno a New York.

Grazie Giulia, insieme abbiamo condiviso davvero un grande momento alla Graffiti Hall of Fame, da lì è nata la nostra SOUL CONNECTION e di storie da raccontare per Aelle ne avremo altre. Stay Curious!

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