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PUBLIC ENEMY: INTERVISTA CON CHUCK D

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​​AELLE.EMAIL​​​ #8 – 19/08/24

PUBLIC ENEMY
C'È UN VELENO CHE STA GIRANDO

AL 39 SETTEMBRE 1999

Di Matteo Maretti

Stamattina l’aria ha un sapore acidulo. E piove, piove a dirotto, quasi diluvia. Piove sempre, ogni giorno, qui a Milano. Al telegiornale, il sindaco della città, con la sua faccia paffuta e un paio di baffoni bianchi che gli spuntano dagli angoli di un sorriso molto televisivo, ripete con quella vocina rassicurante lo stesso annuncio che fa ogni mattina: «Non aprite le finestre, non uscite se non avete la maschera a gas, perché fuori c’è un veleno che sta girando. Il terribile veleno tecnorganico che uccide chiunque lo inali. Attenti, miei concittadini. Io veglio su di voi, perché vi amo». Piove a dirotto, ma è una bella mattina. Oggi devo incontrare Chuck, una mia vecchia conoscenza da prima della guerra tecnologica. Ha quasi sessant’anni, ma è ancora in forma. Un tempo, sul finire dello scorso secolo, era un rapper di successo. A capo dei Public Enemy ha fatto la storia della musica, negli anni Ottanta e Novanta, quando ogni loro disco era un evento. Pian piano, però, la loro stella ha cominciato a declinare. Senza un motivo particolare: semplicemente i gusti delle gente stavano cambiando.

Ricordo l’ultima intervista che gli feci, nel 1999. “Nel corso degli anni - mi disse Chuck - abbiamo avuto modi molto diversi di interpretare la canzone rap. Noi dei Public Enemy avevamo questo approccio, diretto ai temi politici e sociali che ci circondavano. Adesso questo modo di interpretare la canzone rap è diverso. Si parla di altre cose, con un altro linguaggio. Ma ciò non significa che i pezzi dei rapper di adesso non significhino niente. Hanno anche loro le cose da dire, solo che lo fanno in una maniera diversa. Nessuno oggi segue il nostro stile particolare, ma forse è meglio così. Noi l’abbiamo fatto per cercare di sperimentare qualcosa di nuovo ed essere diversi, sia nella musica che nelle parole. E ancora oggi siamo diversi”. Cominciarono giovanissimi, con “Yo! Bum Rush The Show”, metà degli anni Ottanta. Ed era qualcosa che nessuno, allora, aveva mai sentito. Testi provocatori, politicamene espliciti, che parlavano di orgoglio nero, di segregazione, di un’America biancocentrica. Beat assassini, fatti di casse e di sirene, di scratch e campioni di James Brown. Chuck D, Flavor Flav, Terminator X, la Bomb Squad alle produzioni, sfornarono album memorabili, come “It Takes A Nation Of Million To Hold Us Back” o “Fear Of A Black Planet”, che incisero profondamente sull’Hip Hop. Poi arrivarono momenti più bui. Dischi un po’ bistrattati dai critici, come “Musick And Hour Mess Age” e “He Got Game”, che la gente non sentiva nel cuore e nello stomaco come quelli precedenti. Il giorno dell’intervista parlammo a lungo del loro ultimo disco, “There’s A Poison Going On”. Un disco strano, un disco senza featuring, in un momento in cui ogni disco Hip Hop conteneva una lunga lista di collaborazioni. “Una ragione per questa mancanza di featuring - spiegò Chuck - è che abbiamo già seguito questa strada, di collaborazioni ne abbiamo avute un sacco nella nostra carriera, anche insolite. E noi non vogliamo ripetere le cose che abbiamo già fatto 10/12 anni fa. Vogliamo invece enfatizzare ciò che stiamo facendo adesso, nel NoveNove. Questo disco è un disco dei Public Enemy. Quindi sopra ci trovi i Public Enemy e nessun altro. Inoltre, spesso si fanno collaborazioni solo per ragioni commerciali, per vendere di più. Magari due rapper non sono nemmeno amici, non si stimano, eppure fanno un disco insieme. Poi noi abbiamo molti argomenti di cui trattare, molti. Invece molti artisti Hip Hop di oggi sanno dire solo le stesse due o tre cose. E se vogliono fare un disco con 10-15 canzoni, devono collaborare con altri artisti per riempirlo”.

Ed era un disco di cambiamenti, e al tempo stesso di ritorno alle origini. Di classico aveva il linguaggio, musicale e verbale, che era quello dei primi Public Enemy, nemici pubblici del sistema. Di diverso c’erano, innanzitutto, i P.E. stessi. “Abbiamo girato il mondo - sorrideva Chuck mentre pronunciava queste frasi - in lungo e in largo, e più di una volta. Esperienze del genere ti mettono in contatto con realtà assai diverse, abbiamo potuto toccare con mano cose incredibili, conoscere tante situazioni, parlare di cose molto lontane dal nostro mondo. È una cosa che ti apre la mente. Questa è la grande differenza che c’è nei Public Enemy oggi, rispetto agli inizi. E naturalmente questa evoluzione si ritrova anche nei dischi”. Ma non erano solo loro ad essere cambiati. C’erano anche dei mutamenti strutturali. La Bomb Squad non c’era più. Al suo posto, Tom E. Hawk, che produsse tutti i pezzi dell’lp. Sulla scomparsa del team di Hank Shoklee girano ancora oggi molte leggende, ma Chuck non ha mai voluto raccontare esattamente quello che è successo. “La Bomb Squad - ricordava il leader dei Public Enemy - era un intero gruppo di persone che componeva beat e musica. Il nostro rapporto è andato avanti egregiamente per molti anni e non ti dirò nient’altro sulla situazione. Ora però il progetto è fare beat con Tom Hawk e speriamo che la collaborazione continui a lungo. I beat che ha fatto spaccano, e questa è la cosa importante”.

Ed era il primo disco senza la Def Jam, casa discografica storica dell’Hip Hop, che nacque in pratica insieme ai Public Enemy stessi. Con il loro aiuto e con quello di altri pionieri dell’Hip Hop, come i Run D.M.C. e LL Cool J, divenne l’etichetta più grande e prestigiosa di questo genere musicale. “There’s A Poison Going On”, invece, era distribuito da un’etichetta indipendente, la Pias Records. Cos’era successo, con la Def Jam? “Semplicemente - disse Chuck - abbiamo due filosofie differenti. Def Jam sta andando verso l’area dei grandi affari, delle multinazionali della musica. Secondo il principio: prima fare soldi e dopo, eventualmente, fare arte. Noi invece volevamo fare dischi in maniera differente. Visto che i nostri punti di vista non coincidevano, le nostre strade si sono separate. Ora abbiamo fatto questo disco con un’indie. E sicuramente per un artista rap è meglio l’etichetta indipendente, perché è più focalizzata sull’Hip Hop, sulla musica, è più corretta, è più flessibile. Proprio come era la Def Jam quando venne fondata, prima di diventare parte del grande dinosauro del music business”.

Ma quelle due filosofie differenti sottendevano una diversa concezione della musica e della libertà artistica. Concetti che allora, nel secolo scorso, sembravano cose marginali, rivolte agli addetti ai lavori. E che oggi i nostri figli studiano sugli ipertesti scolastici per capire come e perché il mondo è cambiato. Chuck già riusciva a capire, precorrendo i tempi, che la libertà degli uomini si stava assottigliando. “Naturalmente - ragionava - le case discografiche cercano di sfruttare gli artisti e alla fine sfruttano anche questa forma artistica che è la musica Hip Hop. Purtoppo se pensiamo alle case discografiche e agli artisti, il rapporto è univoco, si prende ma non si dà. Nella musica non c’è libertà di esprimersi artisticamente e questo è brutto. La libertà non è completa, e questo è un problema. Basta pensare che è una buona cosa che un rapper sia incazzato, violento, sboccato. Ma non può esserlo contro le case discografiche e l’industria. Perché?” Una domanda che, qualche anno più tardi, ci saremmo posti tutti. Ma lui l’aveva già capito. Chuck sapeva che sarebbero state le nuove tecnologie a indirizzare il futuro del mondo. E già aveva cominciato a muovere i primi passi. Infatti, qualche mese prima di essere immortalati su cd, i brani di “There’s A Poison Going On” potevano essere scaricati, nel formato MP3, sul sito Internet dei P.E. “Ai tempi di “He Got Game” - Chuck ne era molto orgoglioso - abbiamo realizzato il nostro sito Internet, www.publicenemy.com. Poiché molta gente lo visitava ed era interessata, abbiamo pensato di renderlo un’opportunità per poter ascoltare le nostra musica. In effetti Internet negli ultimi 2-3 anni è diventata di fatto una via di distribuzione alternativa ai canali classici. Tu fai i tuoi pezzi, li metti su un sito e la gente può scaricarseli direttamente. C’è un contatto diretto tra pubblico e artisti. Così si taglia fuori tutti ciò che sta nel mezzo: radio, case discografiche, negozi di dischi, politici”.

Accidenti, pensai nella mia beata ingenuità, questo potrebbe essere interessante: un nuovo modo di distribuire le musica che darebbe completa libertà artistica ai musicisti. “Hai assolutamente ragione - confermò il Nemico Pubblico - perché tagliando fuori le major, non c’è più nessun intermediario tra artista e pubblico. Le canzoni arrivano direttamente nei computer degli ascoltatori. Ciò che fai è ciò che i ragazzi sentiranno. Non penso che questo processo ucciderà le major. Semplicemente, toglierà loro un po’ di spazio e di egemonia. Così probabilmente avremo molti più artisti, che potranno gestirsi direttamente, senza bisogno di contratti. L’Hip Hop nel 2000 sarà proprio questo: più artisti, più etichette che passano per Internet, forzando le grandi case discografiche a cedere il loro potere assoluto. Dimostreremo quanto è potente l’Hip Hop”.

A distanza di molti lustri, credo ancora che Chuck D non comprendesse appieno il significato, in chiave futura, di quello che stava dicendo. Nostradamus al confronto è un principiante, perché tutto quello che disse Chuck si avverò. La musica su Internet si sviluppò in fretta e cambiò completamente le nostre prospettive. Un nuovo canale di distribuzione, un nuovo entusiasmo, un nuovo modo di fare e proporre musica, un nuovo approccio verso il pubblico. E una nuova libertà. La Loud non vuole mettermi sotto contratto? La Universal desidera che renda meno esplicite le mie liriche? La Interscope vorrebbe un singolo radio-friendly? Che si fottano, io mi produco da solo i miei pezzi, li metto su Internet e chi naviga li ascolta e, se gradisce ciò che si ascolta, pagando una modica cifra può, a scelta, scaricare l’album o ricevere una copia su cd direttamente a casa. In breve tempo, più velocemente di quanto si potesse prevedere, la vendita di musica on-line raggiunse un giro d’affari pari a quello dei negozi di dischi. E nel frattempo Internet divenne Uninet, Multinet, Extranet, Omnianet. Entrò prima in ogni casa, poi negli elettrodomestici e nei cellulari, infine nel cervello e nelle vene di ogni uomo, tramite innesti biocibernetici. Le case discografiche perdevano sempre di più i loro soldi e il loro potere. E non gradivano. Non gradivano affatto. La necessità, come si dice, aguzza l’ingegno. E anche la bastardaggine, aggiugerei.

Così le major, le etichette indipendenti, la stampa musicale, tutti gli operatori del settore, si coalizzarono. Il grande dinosauro riprendeva vita. Era chiaro che non si poteva contrastare la Grande Rete e riprendersi il potere se non entrando in possesso delle nuove tecnologie. Quei nuovi sistemi che avevano cambiato il mondo e dato la libertà all’uomo. Cominciò la Guerra Tecnologica. Così come l’aveva pensata Chuck D. Avete presente la copertina di “There’s A Poison Going On” ? Ci sono dei bambini bianchi con le maschere a gas e un bambino nero che invece non indossa niente. “Il veleno - disse Chuck in anticipo di trent’anni - è un elemento della società, un veleno che non si sa nemmeno che sia così pericoloso. Significa essere ignoranti e essere vittime della tecnologia. Bisogna essere preparati alle nuove tecnologie, per il prossimo millennio. I bambini bianchi sono preparati, hanno la maschera a gas, il bimbo nero no. Dunque loro non respireranno il veleno e vivranno. È una domanda: la razza nera è preparata per il nuovo millennio? Per ciò che riguarda il mio quartiere, la risposta è assolutamente no. Le nuove tecnologie sono in mano ai poteri e ai potenti della Terra”.

Già, le maschere a gas. Per la mia famiglia non è un problema. Bella forza, mia moglie dirige l’ufficio cyberstampa del sindaco di Milano. Così io, lei e i nostri figli abbiamo quattro maschere a gas dell’ultima generazione, gentile concessione del governo, che ci rendono immuni dal veleno biorganico che avvolge il mondo intero e che uccide chiunque ne venga a contatto. Per vivere, devi avere una di queste maschere speciali, la cui tecnologia, chiaramente, è saldamente in mano alle case discografiche. Che governano il mondo sotto una confederazione dittatoriale. Ogni major ha il suo stato. La nostra nazione ora si chiama EMItalia. Dio a volte ha il senso dell’umorismo. Io un po’ di meno. Il micropager che ho nel midollo mi avverte che è tardi. Devo andare, altrimenti è la volta buona che il mio datore di lavoro mi licenzia, lavoro per la più grande casa editrice della Federazione Terrestre. Devo andare da Chuck D a ritirare la copertina del mio nuovo cyberbook, in distribuzione telematica il mese prossimo. Mi faccio strada fino alla fermata dell’Aerial Line.

Quindici muniti di metropolitana gravitazionale e sono da Chuck. Un abbraccio e poi mi mostra la copertina. Perfetta, come sempre: ologrammi animati splendidamente, effetti di rendering maestosi. D’altronde è il suo lavoro. “Cominciai a scuola - cavolo, ogni volta Chuck riattacca con la solita storia, sarà la vecchiaia - sono sempre stato bravo nel design. Dopo che mi sono diplomato, ho continuato in questa attività. In particolar modo, mi piaceva creare logo per gli artisti rap. Quello dei P.E. l’ho fatto io. In realtà l’avevo creato come logo da dare a qualche altro rapper. Quando sono nati i Public Enemy, ho messo le lettere del nome vicino ai vari logo che avevo. Beh, abbiamo visto che la sagoma nel mirino funzionava egregiamente con il nome Public Enemy. E così, dopo averlo rifinito, è diventato il nostro simbolo. La cosa divertente è che tutto quello che avevo imparato negli anni Ottanta a scuola, dovetti reimpararla negli anni Novanta sul computer. La differenza è che dopo ci mettevo 15 minuti a fare cose per le quali, nell’85, impiegavo un paio di giorni. Ho dovuto imparare un modo nuovo di lavorare: prima usavo le mani, ora uso cervello, occhi e mouse”.

Scambiamo quattro chiacchiere, sui bei vecchi tempi andati, su come si stava bene una volta, sulle mezze stagioni che non ci sono più. I fili bianchi tra i capelli non concedono deroghe riguardo la nostra età avanzata. E inevitabilmente finiamo per discutere dell’Hip Hop, dei Public Enemy, di quegli anni ingenui e incantati fatti di feste, di concerti, di bombole spray e di grandi speranze. -Dimmi, Chuck, a distanza di tanti anni, qual è il tuo disco preferito dei Public Enemy? “Non ho un album preferito. Perché vedi, i nostri dischi per me sono come bambini. Ho una canzone che preferisco, “Welcome To The Terrordome”, perché rappresenta tutto quanto furono, sono e saranno i Public Enemy, ma gli lp sono come dei figli. E sono figli del loro tempo. La critica dice che il miglior album che abbiamo fatto è “It Takes A Nation Of Million To Hold Us Back”. Ma, per farti un esempio, “Fear Of A Black Planet” a mio parere è ugualmente bello, seppure totalmente differente. Io amo anche “Music And Hour Mess Age”, che invece è stato sottovalutato. Ma sono i miei bambini, figli del loro tempo, abbiamo cercato di fare ogni album diverso dal precedente. Magari la gente non li ha apprezzati tutti in egual misura, ma l’evolversi, il cambiamento, il non andare per forza incontro alle aspettative del pubblico ti dà la misura di un artista”. -Chuck, sei un vero artista, ora però ti devo salutare: stasera sono invitato ad un ricevimento di gala nella tenuta del sindaco. Stai in gamba! E salutami Spike Lee, quando vai all’ospizio a trovarlo. “Non mancherò! Ciao, Matteo”. Prendo l’Aerial Line per tornare a casa. C’è molta gente che aspetta alla fermata, ognuno con la propria mascherina ben calcata sul viso e le mani in tasca. Comincia a fare freddo e piove, piove a dirotto, quasi diluvia. Piove sempre, ogni giorno, qui a Milano. E, nonostante la pioggia che cade a dirotto, sulle case e sui marciapiedi portandosi via ogni cosa, l’aria ha sempre quel suo sapore acidulo. Eppure, tutto sommato, mi sembra una bella serata.

video preview

PUBLIC ENEMY “There’s A Poison Going on”

Non devo nemmeno star qui a dirvi quanto i Public Enemy siano stati importanti per l'Hip Hop, quanto l'abbiano influenzato e quanto contavano, agli inizi degli anni Novanta, quando ogni loro disco era un evento. Non devo nemmeno star qui a dirvi che ogni cosa, quando sale in alto, prima o poi deve scendere. E così hanno fatto i Public Enemy. Un declino prima progressivo, poi tumultuoso. Insomma, gli ultimi due dischi sono stati due grandi fallimenti, sia a livello commerciale che di critica. L'Hip Hop, si sa, è un mondo crudele e dimentica in fretta. Dopo “He Got Game”, Chuck D, Flavor Flav, Terminator X e Professor Griff non si sono persi d'animo, ma hanno fatto piazza pulita ripartendo da zero. Via la Def Jam, che ormai ha giovani leoni come DMX che dominano le classifiche, e via la Bomb Squad, storico team produttivo dei PE. Per "There's A Poison Going On”, allora, etichetta indipendente e nuovo produttore, Tom Hawk. Nonostante le numerose novità, il risultato, manco a dirlo, è un classico disco dei Public Enemy. Non che sia brutto, tutt'altro. Beat essenziali e cattivi, rime come sempre dense di significato e 'ribelli'. Flavor sembra rivitalizzato dopo le ultime performance abbastanza soporifere e si ripropone anche in un pezzo solista, "What What". Chuck è sempre lui, inutile aggiungere altro. Se ancora vi piacciono i Public Enemy di "Fear Of A Black Planet", allora gusterete appieno pezzi come "Do You Wanna Go Our Way?", "Last Mass Of The Caballeros", "First The Sheep Next The Shepherd" e "Keworkian". Ma il punto è questo: se ancora vi piacciono i PE. Non si può nascondere che ormai l'Hip Hop sia cambiato, e insieme sono cambiati i gusti degli ascoltatori. Non si usa più questo genere di produzioni, non si dicono più queste cose e non si rappa più in questa maniera. I Public Enemy rimangono fedeli a se stessi, e questo sicuramente li onora e ne evidenzia l'integrità artistica. Ma, inutile nasconderlo, hanno già vissuto i loro momenti di gloria, alla fine degli anni Ottanta. L'Hip Hop, ormai, appartiene ad altri. Noi saremo sempre grati ai Public Enemy, perché ci hanno regalato dei momenti favolosi, indimenticabili. Dieci anni fa. (m&m)

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